«Noi che viviamo all’ombra dell’Etna abbiamo un’autentica vocazione per queste ineffabili esistenze, divise tra gloria e meschinità, idromele e acqua putrida, oro e merda»              

  Giuseppe Lazzaro Danzuso

Di Alessandro Russo – Seduta da anni sulla sponda d’Oriente dell’isola Trinacria, ogni santo giorno l’Etna, gigantesca, si bagna i piedi a riva. Colà giace la città più precaria dell’ex-Belpaese, coccolata dal sole fiammeggiante e accarezzata da cavalloni marini. Sta sotto un immenso tendone color viola d’Africa, ove dimorano esuberanze e mostruosità e il suo nome pare significhi grattugia. Tutti coloro i quali da quelle parti abitano son vivaci assai e san tramutare in spettacolo naturale gesti semplici e ordinari. Epperò fenomeni da baraccone rimangono giacchè hanno come stemma un elefante e vivono sulla groppa di una tigre di fuoco scalpitante. Più o meno questo ci dice il giornalista Giuseppe LazLiotruzaro Danzuso nel suo Gran Circo Catania (Carthago Ed, pag 198, €15). Breve: c’è una città proteiforme che piange, sogna e ride mentre il cantore delle sua gesta ne rincorre le suggestioni ancestrali. Leggenda metropolitana vuole che chi là vive, alle pendici d’un vulcano che sprizza lava a intermittenza, ha un carattere giocondo ma cosparso da una tristezza quasi poetica. Il catanese è un bonaccione –lo sa tutto il pianeta terra-, un teatrante con la liscìa cucita sulla pelle, intanto negli ultimi posti delle graduatorie di vivibilità la sua metropoli staziona. Ordunque, tra ondulazioni, annacate, credenze e superstizioni palpita per sopravvivere e prova a fiorir sottotraccia. Ogni quarto d’ora, trecentosessantacinque giorni l’anno, immancabilmente, ‘a fera ‘o luni c’è qualcosa da gustare. Una carrellata senza fine di immagini attinte dal folklore, una giungla colma di scoppiettante ironia, un variopinto carosello di parole, suoni, colori e parolacce, dove commedia e tragedia stanno a braccetto. Un mondo pirotecnico dove s’intrecciano gag, esibizioni, lacrime e sorrisi; dove l’anima eclettica del catanese manifesta le sue ombre ansiose e la sua anarchia tendente allo sberleffo.

«I catanesi -parola di Lazzaro Danzuso- sono circensi alla ricerca del numero perfetto che li faccia sfondare e li consegni alla storia: povera, meravigliosa gente. Questo libro nasce dall’odore di segatura sparso per le strade durante la festa di Sant’Agata che mi ha fatto rendere conto che Catania è un circo. Una città meravigliosa che mai si arrende ed è sempre rinata nonostante le difficoltà più terribili. Dopo il terremoto del 1693 è diventata un gioiello barocco; adesso sta cambiando nuovamente e diventerà ancor più bella». «Storie divertenti, patetiche, – recita la quarta di copertina – paradossali, dal sapore agrodolce tipico della cucina siciliana fanno di Gran Circo Catania un’opera capace di restituirci attraverso lo sguardo di clown, freaks, acrobati, domatori e giocolieri della porta accanto, l’immagine gioiosa e talvolta malinconica di una città colma di energia, di bellezza e di contraddizioni. Narrazioni, ritratti, istantanee di feste e rituali, fatti di cronaca e racconti di fantasia, momenti poetici dagli imprevedibili esiti, personaggi noti e non, leggende conosciute e sconosciute, straordinari camei».

Buona la scelta di devolvere i proventi dell’autore alla prima biblioteca sociale nel quartiere di Librino, epperò più leggo questo volumetto e più io m’innervosisco. Quando sfoglio Gran Circo Catania l’affresco a me non par incantevole. Mix esplosivo di antologia e mitologia con una dinamica spumeggiante e dallo stile smagliante? Libro esilarante e imperdibile? Verace ecografia o elettroencefalogramma di Catania ? Omaggio in chiave circense alla città dell’elefante ?

No, piuttosto un irriverente zibaldone che si trasforma in pubblicazione dissacrante con dentro un mucchio d’incoerenze. L’omino che si fa il bidet in una fontanella di piazza Bovio e il vecchietto che palpa la prosperosa infermiera in ospedale. Ancora: l’arzillo nonnino che comincia a tagliarsi le unghia dei piedi alla fermata del bus e i due pensionati che, seduti alla Villa Pacini, sognano giochi erotici. «Che motivo c’è –mi domando- di concludere l’intrigante silloge narrativa di trentaquattro racconti e una poesia con un centinaio di barzellette su Catania e sui catanesi ?”

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