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Sono passati settant’anni da quel lontano 27 gennaio 1945 quando le truppe sovietiche dell’Armata Rossa, nel corso dell’offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Auschwitz scoprendo il campo di concentramento mostrando così al mondo intero l’orrore di quello che avveniva in quei luoghi dove migliaia e miglia di uomini, donne e bambini hanno perso la vita in modo barbaro, sottoposti alle più atroci torture, usati come cavie umane per sperimentare come poter uccidere più persone possibili in poco tempo. Esseri umani trucidati da altri esseri umani perché “deutsch uber alles”, vale a dire “la Germania prima di tutto”, come dice il verso della più nota canzone patriottica tedesca adottata dai nazisti che ne diedero un’interpretazione propria facendola divenire simbolo di oppressione.

dachauAncora oggi entrando in uno qualsiasi di quei “Campi dell’orrore” si sente l’odore acre della morte, dietro quei cancelli dove sovrasta la triste scritta “Arbeit macht frei” cioè “Il lavoro rende liberi”. Una beffa per chi li vi entrava per non poi uscirne più se non “passando per il camino e adesso sono nel vento” (Auschwitz di Francesco Guccini).

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